domenica 29 aprile 2018

Maldive: HIMMAFUSHI


La mattina del 25 aprile, per lasciare l’ancoraggio senza infamia e senza lode di Velassaru, dobbiamo aspettare che il sole sia abbastanza alto: sulla rotta di uscita dalla laguna (120°) ci sono alcuni reef da evitare, e come sempre vogliamo navigare in sicurezza. Alle 10 la visibilità dei fondali è accettabile; salpiamo e partiamo. Una volta fuori dal reef la nostra rotta è 60°. Il vento è da NW, abbiamo un apparente al traverso sui 10-12 nodi: finalmente si va a vela!

Attraversato il canale che separa gli atolli di Male Sud e Male Nord, passiamo ad ovest della capitale, Malè, che vista dal mare ci fa uno strano effetto. Da un lato ci colpisce rivedere per la prima volta, dopo settimane passate per mare, palazzi alti, automobili, strade asfaltate; dall’altro la città ci appare compressa, pigiata, ai limiti della capienza. L’isola su cui sorge è piccolissima e tutta edificata, sembra non esserci posto neanche per un box auto. 
Il traffico di barche a motore è intenso, ma per nulla al mondo rinunceremmo ad avanzare a vela, ora che si può; così proseguiamo verso NNE, scorrendo il versante ovest di Hulhumale, l’isola dove c’è l’aeroporto.
Quando il vento rinforza con qualche raffica a 16 nodi e Refola prontamente risponde, accelerando a 7-7,5 nodi ci sembra di sognare, di essere tornati alle veleggiate del Pacifico.  Ma il divertimento non dura molto, perché alle 13 siamo già arrivati alla nostra destinazione, Himmafushi.
Qui la cartografia elettronica, anche se scarsamente dettagliata, è perlomeno corretta. Entriamo nella pass artificiale (scavata nel reef) tramite cui si accede al piccolo porto e ad una laguna oblunga, dove ancoriamo su un fondale sabbioso di 8-9 metri (4°18.472’N 73°33.848’E). 
Accanto a noi vediamo con piacere ancorato Vamonos 2, il catamarano dell’australiano Terry che abbiamo conosciuto a Galle in Sri Lanka e rivisto a Uligamu alla fine di marzo; a bordo sembra non esserci nessuno, il dinghy non c’è. “Saranno a terra”, pensiamo.
Andiamo in paese col dinghy per prendere informazioni sui traghetti per Malè, di cui avranno bisogno venerdì Ornella ed Umberto, che lasceranno Refola per volare in Italia. Dopo varie e non facili ricerche riusciamo a capire qualcosa dei trasporti locali: c’è un servizio di barche veloci che effettua 4-5 corse al giorno ad orari stabiliti. Dal momento che i motoscafi non trasportano più di una ventina di persone, se si vuole essere certi di imbarcarsi è necessario prenotare i posti telefonando alla compagnia il giorno prima (il biglietto si paga alla partenza). Sono barche nuove e molto veloci (fino a 4 motori fuoribordo da 250 cavalli, si viaggia a 30 nodi), che impiegano circa 15 minuti per arrivare a Malè, al prezzo di 100 Rupie a testa (circa 5,5 €). 

Il paese di Himmafushi non ha nulla di particolarmente attraente: le strade come sempre sono in sabbia, percorse da motorini e qualche piccola auto elettrica, alcune case sono in stato di abbandono, 4-5 piccoli negozi alimentari (tutti poco forniti di frutta e verdura) ed altrettanti negozi di souvenir. Facciamo un po’ di spesa e rientriamo a bordo.
Nell’avvicinarci vediamo Terry sul suo catamarano, così Lilli ed io andiamo a salutarlo. 
Ci racconta le due disavventure che gli sono capitate in questo mese: in uno dei primi ancoraggi dopo Uligamu gli hanno rubato il dinghy (ne sta ora cercando uno usato) e poi è stato vittima di un raggiro per estorcergli denaro!
La prima purtroppo è semplice da spiegare: la sera il gommone era legato alla barca, la mattina non c’era più. La seconda è più complessa: il programma di navigazione di Terry prevedeva di fare sosta a Malè per tirare in secco la barca e controllare una piccola infiltrazione; perciò come da istruzioni ricevute da Assad (lo stesso nostro agente di Uligamu) prima di entrare a Malè chiama al telefono l’agente locale, collaboratore di Assad, per avvisare del suo arrivo e rifare le pratiche doganali (costo 150 US$). Ma questo agente non risponde alle ripetute chiamate e Terry a questo punto, avendo appuntamento con il cantiere, entra e tira su la barca. Poco dopo, come per magia, spunta dal nulla l’agente fino ad allora irreperibile, comunicando a Terry che la dogana vuole fargli una multa di 55.000 Rupie (circa 2900 €) per essere entrato a Malè senza rifare le pratiche doganali. Alle rimostranze di Terry (“ma io ti ho chiamato, tu non rispondevi, cosa dovevo fare?”), lo “zelante” agente promette di fare del suo meglio per risolvere il problema. Il giorno dopo torna e gli racconta di essere riuscito, dopo estenuante trattativa, ad ottenere la riduzione della multa a 14.000 rupie (730 €). Ma Terry è inflessibile: “Io non pago nulla, ho chiamato e nessuno ha risposto, sul mio telefono ci sono le prove, andiamo insieme alla Dogana, voglio far sentire le mie ragioni!”. “Meglio di no, meglio di no - ribatte l’agente - andrò a trattare ancora…” La partita non è chiusa, ma Terry non ha ricevuto finora alcuna contestazione formale e - giustamente - è intenzionato a non tirare fuori neanche un dollaro. Speriamo ce la faccia!
Giovedì 26 è per Ornella ed Umberto l’ultimo giorno su Refola; il loro aereo parte da Hulumale la mattina di sabato e per evitare una alzataccia il giorno della partenza dormiranno l’ultima notte in un albergo vicino all’aeroporto. Avremmo voluto fare ancora un po’ di snorkeling, ma… nonostante i colori della laguna intorno a noi siano splendidi come sempre, l’ancoraggio non è così tranquillo: il vento è sui 15 nodi da W, il mare supera la barriera e abbiamo una bella ondina sul mezzo metro che fa continuamente beccheggiare la barca. 
Come se non bastasse, il traffico nella laguna è intenso e le barche che sfrecciano a qualche decina di metri dalla poppa creano anch’esse una bella onda. Disagevole fare il bagno, difficile muoversi col dinghy. Peccato!
Venerdì 27 accompagniamo Ornella ed Umberto al porticciolo e poiché la loro corsa sulla barca veloce parte alle 14.15, per salutarci degnamente pranziamo in un ristorante vicino al molo. Le partenze lasciano sempre un po' di tristezza, i 20 giorni passati insieme sono volati ed ora ci mancherà la loro compagnia.

Proprio mentre siamo al ristorante vediamo entrare nella pass una barca con lo scafo blu. “È Amandla? No, sì, sì, è lei!” Amandla è la barca del nostro amico Fabio, conosciuto l’anno scorso a Pangkor insieme alla sua compagna Liza. Passiamo a salutarli rientrando in barca, hanno a bordo anche Lucio, un loro amico vicentino. Fabio ci dice che ha intenzione di andare l’indomani a Malè per fare cambusa, noi ormai siamo esperti in materia di trasporto locale; decidiamo di unirci a loro, è anche un’occasione per visitare la capitale.
La barca veloce su cui ci imbarchiamo alle 8 del mattino è davvero una scheggia: sembra volare sull’acqua, fa le curve in parabolica piegandosi come una motocicletta (o una barca a vela di bolina), affronta la pass a 30 nodi di velocità. Ci sembra di essere al luna park!
Il terminal dei traghetti è sul versante nord di Malè, il traffico è intenso sia in porto che per la città. Si nota subito la grande differenza con i villaggi maldiviani, anche i più evoluti, che abbiamo visitato finora: qui siamo in una città moderna, con negozi alla moda, grandi magazzini, ristoranti. 
E pure si conferma l’impressione avuta vedendola dal mare. Una città cresciuta fin dove poteva, che ora non ha più spazio. È infatti in costruzione un possente ponte, in ferro, che la collegherà a Hulumale; non sarà solo il collegamento diretto con l’aeroporto, ma anche l’apertura di nuovi spazi di espansione, sebbene limitati.


Nel nostro girovagare individuiamo subito il grande mercato al coperto di frutta e verdura, e quello altrettanto vasto del pesce. Troviamo anche un bel supermercato, ben rifornito, lo “STO”. Per non passeggiare carichi di pesi, andiamo prima a pranzo in un ristorante libanese sul versante NE, per poi dedicarci alla cambusa. Al mercato del pesce c’è abbondanza di grossi tonni sui 30-50 kg.: noi acquistiamo 2 kg di filetto per 100 rupie (5,5 €).

Carichi di provviste, alle 15 prendiamo la via del ritorno; arrivati in barca diciamo arrivederci a Fabio, Lisa e Lucio di Amandla e a Terry di Vamonos, domani salpiamo per Makunufushi, a 27 miglia.

giovedì 26 aprile 2018

Maldive: MAAGAA - VELASSARU FALHU

Domenica 22 aprile attraversiamo in diagonale, con direzione SE, l’atollo Alif Alif (AA o North Ari Atoll): 16 miglia senza ostacoli, ancora una volta a motore. In prossimità della nostra destinazione, nelle ultime 2 miglia, la cartografia elettronica ancora una volta è scarsamente allineata alle immagini satellitari.
Arriviamo verso le 13 alla piccola pass di accesso alla laguna di Maagaa.
Siamo a mezza marea crescente, e questo dettaglio è importante, perché in caso di incaglio avremmo più possibilità di liberarci. La pass ha una larghezza utile di circa 15 metri; sul versante sinistro, entrando, c’è un isolotto artificiale sovrastato da un’altissima antenna telefonica (“service islands”, le chiamano, isole di servizio) con una sorta di molo in cemento, mentre sul versante destro c’è il reef, con alcuni aguzzi scoglietti affioranti. 
Non abbiamo dati sulla profondità della pass ma solo un WP di ancoraggio all’interno della laguna, segnalato da Totem, una barca che è stata qui nel 2014. Il sole è alto, la visibilità buona; ci infiliamo tra i due paletti che indicano l’inizio della pass. L’acqua è talmente trasparente che sembra di toccare il fondo ogni momento, procediamo lentamente con il fiato sospeso, mentre l’ecoscandaglio registra la continua diminuzione della profondità sotto la chiglia: 4 metri, poi 3, poi 2, 1.8, 1.5, 1.4 … finalmente dopo un centinaio di metri il fondale riprende ad abbassarsi ed il nostro respiro torna regolare. Siamo dentro!
Procediamo all’interno della laguna verso ovest per circa mezzo miglio, il fondale è omogeneo e sabbioso senza patate, ancoriamo su 15 metri (3°59.811’N 72°56.611’E).

Nel pomeriggio torniamo alla pass con il dinghy, la marea è ancora crescente e la corrente è entrante, di circa 1 nodo; facciamo il bagno lasciandoci trasportare nell’acqua limpidissima, attorniati da piccoli pesci, tra cui spicca una grande razza che sembra volare sott’acqua. Non sembra vero di essere passati di qui con la barca.
Durante la sosta ci rendiamo conto che la “nostra” laguna è usata dagli idrovolanti come pista di atterraggio (o meglio di ammaraggio): 2-3 volte al giorno li vediamo arrivare, affiancarsi ad una piccola piattaforma galleggiante, procedere alle operazioni di scarico/carico turisti e ripartire. Ogni volta, pochi minuti prima dell’ammaraggio, qualche barca proveniente dai resort vicini entra in laguna, attende vicino alla pass che l’idrovolante completi le manovre di ormeggio, e a sua volta scarica/carica 5-6 persone. Alle 18 arriva l’ultimo aereo, che rimane attraccato alla piattaforma durante la notte per ripartire il mattino dopo, alle 6. 


La laguna di Maagaa ha una forma ellittica, con gli assi lunghi l’uno poco più di 1 miglio e l’altro poco più di mezzo miglio; la piccola pass, artificiale, è l’unico accesso.
Leggiamo sul portolano “Maldives Cruising Guide” che la laguna e l’isola di Maagaa fanno parte del resort della attigua Ellaidhoo e che pertanto, anche solo per recarsi a terra con il dinghy, bisognerebbe chiedere l’autorizzazione alla reception del resort. Facciamo gli gnorri ed il giorno seguente, alato il dinghy, facciamo un’escursione sull’isoletta di Maagaa unica porzione emersa del piccolo atollo a parte l’isolotto artificiale della pass. L’acqua è più pulita di quella degli ancoraggi precedenti, e in prossimità dell’isola riusciamo a vedere anche una manta, di circa un metro.
Dalla spiaggia sporge verso la laguna un lungo pontile di legno, che da vicino vediamo danneggiato in due punti. 

Un giovane ci viene incontro: siamo pronti a ricevere una ramanzina e a fornire giustificazioni per la nostra incursione, ma invece lui sfodera un sorriso smagliante e ci dà il benvenuto, dicendoci che possiamo tranquillamente scendere a terra e visitare l’isola. Si chiama Hussein, viene dal Bangladesh ed è l’unico essere umano presente! Per dovere di ospitalità si offre come guida e ci racconta la storia del resort: lui lavora qui (come una sorta di custode) da 11 anni ed ha visto nascere il progetto di Maagaa. Il proprietario, maldiviano, è lo stesso del resort di Ellaidhoo, e voleva aumentare la ricettività costruendo delle villette esclusive su Maagaa. I lavori sono partiti e giunti ad un notevole stadio di avanzamento: quasi pronte le parti comuni, le infrastrutture e i servizi, edificate 5 villette con piscina, idromassaggio e vista mozzafiato sulla laguna o sull’oceano. 
Mancava poco per terminare, gli arredi e le finiture interne, ma … sono finiti i soldi e tutto si è bloccato. Attualmente il proprietario ha dato in gestione il resort di Ellaidhoo ad una società srilankese ed ha messo in vendita l’isola di Maagaa.
E così il nostro Hussein vive qui da solo, fa la guardia alla struttura e tiene pulita la spiaggia, raccogliendo rami, plastica e rifiuti vari trasportati dalla corrente; solo durante le ferie torna dalla sua famiglia in Bangladesh. Mentre ci racconta tutto questo ci mostra le ville, quello che avrebbe dovuto diventare il ristorante, quella che avrebbe dovuto essere la reception, per accompagnarci poi ad un altro lungo pontile che si sporge verso l’oceano, da cui ammiriamo coralli e pesci variopinti, in un’acqua trasparente come il vetro.
Gli chiediamo delle mante. “Ne abbiamo vista una qui vicino” gli dico. “Sì -conferma- ora cominciano ad arrivare dentro la laguna, con il SW l’acqua è più ricca di plancton di cui si nutrono”.
Nel salutarci Hussein, molto gentilmente, ribadisce che possiamo girare tranquillamente sull’isola fare il bagno dove preferiamo.
Facciamo un po’ di snorkeling su qualche testa di corallo lì vicino, all’interno della laguna, senza vedere niente di interessante (gran parte del corallo non gode di buona salute).

Costeggiamo poi con il dinghy il versante sud della laguna e, viste le condizioni ideali di calma piatta, caliamo l’ancorotto sulla barriera per dare un’occhiata alla sua parete esterna, dove la profondità passa improvvisamente da un metro e mezzo a 40. Qui si che è uno spettacolo: l’acqua è di una trasparenza eccezionale, la visibilità si estende fin dove arriva la luce del sole, i corallo è vivo e siamo attorniati da tantissimi pesci. 


L’escursione ci ha riempito di entusiasmo; questo ancoraggio, fra tutti quelli fatti fino ad ora, merita 3 stellette: per la protezione, per l’acqua pulita, per quello che si può vedere.
Martedì 24 lasciamo Maagaa. Uscire dalla pass ci risulta più facile rispetto all’ingresso, perché abbiamo la traccia e conosciamo i fondali; passiamo con marea calante ed una debole corrente uscente, fondale minimo 3,6 metri.
Una volta in mare aperto, insistiamo nel mettere la traina (non si sa mai!) e facciamo rotta su Velassaru Falhu, a 30 miglia.
Velassaru si trova nel South Malè Atoll, abbiamo quindi circa 28 miglia di acque profonde e libere. Verso mezzogiorno il vento rinforza sui 10 nodi, abbiamo un apparente al giardinetto di 6 nodi; apriamo il genoa e spegniamo il motore per la prima volta dopo settimane, non sembra vero… finalmente procediamo a vela, anche se con una velocità media tra 3,7 e 4 nodi!
Raggiungiamo la pass tra Bolifushi e Velassaru, accendiamo il motore e riavvolgiamo il genoa; nella pass il fondale minimo è di 10 metri, scorriamo sulla destra un grande resort e aggiriamo da est il vasto basso fondale di Velassaru. Risalendo verso nord la laguna interna il sole alto ci fa notare, a debita distanza, numerosi reef semiaffioranti, non segnalati sulla cartografia elettronica, ma anche poco visibili sull’immagine satellitare. Ancoriamo su un fondale sabbioso di 16-17 metri, a circa 200 metri dal reef ovest (4°06.711’N 73°24.784’E).


Guardandoci intorno, si capisce al volo che non siamo più in un posto isolato, circondati dalla natura: vediamo a 5 miglia la città di Malè stagliarsi nell’orizzonte, siamo circondati da isole resort e c’è un discreto movimento di barche che fanno la spola tra i villaggi e l’aeroporto. D’altra parte questa è solo una sosta per la notte. Domani ci sposteremo a Himmafushi, nel North Malè Atoll, a circa 17 miglia.



lunedì 23 aprile 2018

Maldive: RASDHOO - MATHIVERI - VIHAMAAFARU



Navighiamo per 25 miglia fino all’atollo di Rasdhoo, manco a dirlo, solo a motore. Ornella e Umberto sono a bordo di Refola da 10 giorni e non hanno mai visto aperte le vele. Per fortuna lo scenario che ci circonda ripaga la frustrazione di velisti senza vento.
Rasdhoo è un piccolo atollo di forma circolare, con un diametro di circa 4 miglia, cui si accede tramite due pass sul versante meridionale, poste ad est e ad ovest dell’isoletta che dà il nome all’intero atollo.
Avvicinandoci alla pass di accesso (quella orientale) ci rendiamo subito conto della differenza tra la cartografia C-Map, su cui avevo impostato la rotta, e l’immagine satellitare: su C-Map il canale risulta spostato ad ovest di circa 400 metri, e lo stesso vale per la cartografia Navionics!


La cosa non è affatto rassicurante, ma ci affidiamo alle immagini satellitari e soprattutto alla traccia di Zoomax; il WP di accesso è 4°15.769'N 73°00.009'E; superiamo facilmente la pass e poi, con un ampio giro per evitare i bassi fondali a nord del porto di Rasdhoo, andiamo ad ancorare a nord della adiacente isola Kuramathi, occupata interamente da un grande resort, dove i fondali sono più uniformi e c’è più spazio. Caliamo l’ancora su 17 metri di fondale sabbioso, con qualche macchia di corallo basso (4°15.732’N 72°58.759’E). Poco distante, sull’area a NE di Kuramathi, ci sono una decina di boe, per lo più già occupate da motoscafi e imbarcazioni per servizi turistici, diving e gite.
Il giorno seguente andiamo con il dinghy al villaggio di Rasdhoo, a circa mezzo miglio, per cercare un po’ di frutta e soprattutto acquistare nuovo credito per la SIM-Card delle Maldive, senza il quale non possiamo connetterci ad internet. Avvicinandoci osserviamo che le barche che entrano in porto sono costrette a seguire un percorso a zig-zag, segnalato da paletti; col dinghy noi andiamo diretti, ma in alcuni punti non abbiamo più di 50 centimetri d’acqua sotto la chiglia.
La prima impressione, appena scesi a terra, è di estremo ordine e pulizia: due signori stanno raccogliendo foglie e rari rifiuti dal piazzale sabbioso antistante il porto, intorno vediamo giardinetti con le immancabili palme e alberi del pane, nonché un variopinto parco giochi per bambini. 



Veniamo subito avvicinati da un altro locale in motocicletta che ci porge il benvenuto con qualche parola in italiano: è il proprietario di una guest-house in cerca di clienti, ma si rende subito utile con le informazioni di cui abbiamo bisogno (dove possiamo trovare un ATM per prelevare contante, un supermercato per frutta e verdura, dove ricaricare la SIM e dove pranzare).

Si nota subito la vocazione prettamente turistica dell’isola: negozi di souvenir, alberghi e numerosi centri diving. La nostra guida ci racconta che ci sono 37 guest-house e circa 1200 abitanti.
Andiamo un po’ a zonzo per le strade di sabbia, percorse esclusivamente da qualche motorino, facciamo provvista di frutta e verdura, rinnoviamo il credito della SIM-card e andiamo a mangiare davanti al porto alla locanda “Palm Shadow”, il solito menù (riso, pollo, pesce) e prezzi bassi.
Cielo coperto e piogge frequenti stanno caratterizzando il meteo di questi giorni; solo raramente compare un po' di sole, e l’assenza di luce non ci invoglia a fare bagni ed escursioni per vedere coralli e pesci.
Salpiamo il 20 aprile con destinazione Mathiveri, 18 miglia a WSW.
Mathiveri è una piccola isola che fa parte di uno dei più grandi atolli delle Maldive, Alif Alif (AA) o North Ari Atoll; l’ancoraggio ad est dell’isola è ben protetto da SW a NW, cioè dai venti dominanti degli ultimi giorni. Ancoriamo su un fondale di 14 metri, di sabbia con molte formazioni coralline (4°11.437’N 72°45.184’E); per evitare che la catena in bando si incattivisca su qualche corallo, vi fissiamo una boa che ne tiene sollevati gli ultimi 20 metri, vicino alla barca.
Prima di ancorare, in avvicinamento, vediamo una di quelle scene che fanno accapponare la pelle dei velisti: due alberi sghembi spuntano dall’acqua in prossimità del reef. Si vedono le sartie, le volanti, e la posizione degli alberi fa pensare che la barca, sott’acqua, sia spezzata in due. Nonostante la giornata cupa, aliamo il dinghy per andare a vedere il relitto, che si trova mezzo miglio più a nord. Solo Umberto ed io ci tuffiamo, mentre Ornella e Lilli rimangono sul dinghy, entrambe con un’espressione un po’ tesa sul volto. 


La visibilità sottacqua è ridottissima, a stento riusciamo ad intravvedere lo scafo appoggiato sul fianco sinistro, su un fondale sabbioso di circa 10 metri. Risaliamo sul gommone un po’ mogi. Una visione del genere fa sorgere sempre mille interrogativi: cosa sarà successo? Un’avaria, una distrazione, condizioni meteo difficili? Vista la poca distanza dall’isola diamo per scontato che l’equipaggio sia rimasto illeso, ma ciò non basta a mitigare il dispiacere.
Il giorno seguente decidiamo di spostarci; il posto dove siamo non è allettante, le acque sono un po' torbide, e poi c’è sempre quel relitto poco distante… unica nota positiva un bel segnale internet che viene dal villaggio di Mathiveri.
Sei miglia più a sud c’è una piccola laguna, Vihamaafaru, che offre una buona protezione da S a W; vi si accede da sud, ed il sole che finalmente è riapparso ci permette di vedere chiaramente il passaggio (WP di accesso 4°07.262’N 72°45.346’E, rotta 280°). 
In breve tempo siamo dentro, nel passaggio registriamo un fondale minimo di 14 metri. Risaliamo sul lato ovest della laguna, molto profonda, e la esploriamo verso nord in cerca di fondali più ridotti; vediamo però che a profondità meno elevate, sui 10 metri, aumentano le macchie di corallo. Per stare tranquilli, ancoriamo in acque profonde 26-27 metri, su sabbia (4°07.597’N 72°44.838’E).
Anche qui l’acqua non è trasparente, e i coralli visibili dove si alza il reef sono morti, anche se ricchi di pesci colorati; insomma un ancoraggio buono per la protezione, ma niente di più. 
Al tramonto decidiamo che non vale la pena sostare, domani ci sposteremo sul lato orientale dell’atollo di Alif Alif, nella piccola laguna di Maagaa.

venerdì 20 aprile 2018

Maldive: GOIDHOO - HIMMIYA FALHU - RASFARI

Venerdì 13 aprile percorriamo le 37 miglia della tappa da Dharavandhoo a Goidhoo ancora una volta interamente a motore; c’è poca aria, fa un gran caldo, ma per fortuna siamo protetti dal grande tendalino che copre la tuga di poppa. Nel tragitto peschiamo un piccolo tonnetto da 20 centimetri; memore dell’esperienza precedente, lo ributto subito in mare dando modo al fortunato tonnetto di dileguarsi immediatamente con un guizzo. Umberto mi guarda incredulo, ma capisce quando gli spiego che sono stato assalito dai sensi di colpa dopo aver “ucciso” un tonnetto altrettanto piccolo, pochi giorni fa.
La nostra destinazione, Goidhho, è un atollo di forma ovale racchiuso da una barriera corallina affiorante; nella parte nord ci sono quattro isolette abitate. Goidhoo, la più grande, dà il nome a tutto l’atollo ed è dotata di un porto cui piccole navi possono accedere direttamente tramite una stretta pass situata a nord. Poiché non è nostra intenzione entrare in porto, ma stare tranquilli ancorati in laguna, entriamo nell’atollo da sud: la pass non è ben visibile sulla cartografia elettronica, ma noi procediamo senza difficoltà grazie alla traccia di Zoomax… Il WP dell’inizio della pass è 4°48.756’N 72°53.655’E.
Dalla pass sud a Goidhoo ci sono ancora 6 miglia, libere da ostacoli; solo nell’ultimo miglio bisogna prestare attenzione ad alcune macchie di corallo la cui profondità non è certa. Nel tragitto interno peschiamo un combattivo carangide sui 5 kg., che purtroppo riesce a liberarsi mentre tentiamo di agganciarlo con il raffio, lasciandoci a bocca asciutta.
Alle 14.30 ancoriamo ad ovest di Goidhoo, su un fondale sabbioso di 16 metri (4°52.213’N 72°58.890’E); è un posto tranquillo e riparato, con acque limpide. Il cielo purtroppo si è nel frattempo annuvolato, riducendo di molto la magia dei colori; io compio la mia solita breve immersione per controllare la posizione dell’ancora e la catena, ma rimandiamo all’indomani un giro in gommone per lo snorkeling.
La mattina dopo riceviamo la visita di una piccola barca a motore con a bordo due giovani ed un bambino. Sono educati, sorridenti, e curiosi di vedere la barca: in ottimo inglese ci chiedono il permesso di salire a bordo per fare qualche foto. Naturalmente acconsentiamo. Uno di loro ha fatto lo skipper su un catamarano per turisti, l’altro è un istruttore di diving; ci indicano la zona dove si possono vedere le mante e una bella macchia di corallo, segnalata da una boetta, e si congedano con grandi saluti.
Con il dinghy raggiungiamo il porto a nord a circa ¾ di miglio, per visitare il villaggio. Veniamo accolti gentilmente da alcune persone, che ci chiedono se abbiamo bisogno di qualcosa. “Frutta e verdura fresca” dico io. “Qui la potete trovare, ci sono le piantagioni” risponde il più anziano di loro. Due giovani si offrono di accompagnarci nella ricerca. Entriamo in due piccoli empori alimentari, dove troviamo alcuni manghi e null’altro. “Le piantagioni sono lontane, bisognerebbe andarci con il furgoncino” dice uno dei ragazzi. “Non importa, facciamo solo un giretto per il paese” dice Lilli. Ma il ragazzo voleva proprio aiutarci e prontamente telefona a qualcuno per avvisare che desideriamo della frutta; “Proseguite su questa strada, troverete chi vi darà delle banane. E non preoccupatevi di cercarlo, vi riconoscerà lui…”. Infatti dopo qualche minuto di cammino (le strade sono tutte rigorosamente di sabbia, percorse solo da biciclette e motorini) passiamo vicino ad una casa da cui esce un uomo con un mezzo caschetto di piccole banane mature. “Sono un regalo, non dovete pagare niente” si affretta a dire il nostro interlocutore. Ringraziamo, sorpresi da questo gesto di generosità; completiamo il giro al villaggio e ritorniamo al nostro dinghy.
Sulla via del ritorno ci fermiamo sul banco di corallo segnalatoci, ci leghiamo al cavo della boetta, e ci godiamo una mezz’ora di snorkeling al limite delle acque profonde. Il sito è molto bello, con tanti diversi tipi di corallo, vivi e colorati e soprattutto tanti, tantissimi pesci variopinti, di tutte le dimensioni.


Nel pomeriggio la dinette di Refola si trasforma in una premiata forneria: Ornella mi insegna il suo metodo per cuocere al forno una deliziosa ciabatta.
Domenica 15 aprile salpiamo per una tappa di circa 40 miglia alla volta di Himmiya Falhu, a NW dell’atollo Kaafu, dove si trova la capitale delle Maldive, Malè. Superata l’ampia pass fra gli isolotti di Akirifushi e Himmiya con una corrente contraria di 2-3 nodi, il cielo coperto ci rende un po' difficile individuare il passaggio settentrionale di accesso alla laguna di Himmiya. Non abbiamo tracce di altri navigatori passati di qui, ma solo le coordinate degli ancoraggi di Adina e Totem, due barche di cui seguiamo le avventure tramite i loro blog. Procediamo quindi con cautela, Lilli e Umberto di vedetta a prua, e una volta superato il reef, passando su un fondale minimo di circa 6 metri, ancoriamo su fondale sabbioso di 10 metri (4°36.572’N 73°23.415’E). L’acqua è limpidissima ma a mezza marea c’è ancora una corrente nord sui 2 nodi, per cui aspetto un’ora per andare a vedere l’ancora, che trovo completamente affondata nella sabbia.

Il posto è isolato, un ancoraggio nel mezzo del nulla, la corrente ci limita nei bagni, così l’indomani decidiamo di salpare per raggiungere Rasfari, 15 miglia più a sud, altra isoletta dell’atollo Kaafu.
Per evitare di zigzagare tra i reef torniamo in acque profonde, navigando quindi all’esterno dell’atollo. La giornata è, dal punto di vista meteorologico, davvero particolare: il mare è piatto e liscio come l’olio, l’aria è più che mai tersa e trasparente, il cielo sembra più alto e vasto del solito ed è chiazzato da grosse nubi, ad est grigie e minacciose, ad ovest bianche e vaporose. Sopra di noi splende il sole e tutti i colori sono esaltati all’ennesima potenza. Uno spettacolo!
Rientriamo nell’atollo attraverso la pass a sud di Rasfari, per poi accedere alla sua piccola laguna, sul lato est dell’isoletta. Mentre la pass non presenta difficoltà, l’ingresso in laguna è un po’ più arduo. Anche qui non abbiamo tracce da seguire, e la cartografia elettronica non è affatto precisa: in queste situazioni non si può che avanzare con estrema cautela, tenendo un’attenta guardia a prua. Percorriamo lentamente i circa 300 metri del passaggio trovando profondità medie sui 5 metri. Ho segnato alcuni WP per questo tratto: wp1 4°23.534’N 73°21.431’E, wp2 4°23.575’N 73°21.384’E, wp3 4°23.601’N 73°21.377’E.
Risaliamo mezzo miglio lungo il versante ovest della laguna ed ancoriamo su un fondale di sabbia chiara, senza coralli, di 17 metri  (4°24.115’N 73°21.474’E). L’acqua limpida, la totale assenza di corrente, qualche razza dove il fondale risale sui 10 metri, rendono questo posto solitario estremamente piacevole.
Aliamo il dinghy per un giretto di perlustrazione. L’isoletta di Rasfari è disabitata ed ospita solo un’altissima antenna per la propagazione del segnale telefonico; un lungo pontile in legno, in buono stato di manutenzione, collega un moletto in cemento dotato di scalette. Lunghi tratti di spiaggia sono protetti da un basso frangiflutti formato con sassi corallini levigati dal mare.

Quando atterriamo, un giovane ci viene incontro sul pontile. Per un attimo pensiamo che voglia mandarci via, ma ci rassereniamo vedendolo avanzare sorridendo. Lavora per la compagnia telefonica, che periodicamente lo invia qui in missione per controllare l’impianto. 3-4 giorni di lavoro in assoluta solitudine, prima che vengano a riprenderlo per riportarlo a Malè, dove vive. Evidentemente di stare da solo non ne può proprio più: “Sarebbe proibito scendere a terra, ma siete i benvenuti. Basta che non diciate a nessuno che vi ho fatto visitare l’isola, altrimenti mi licenziano”.
Così ci fa da guida. Sotto la grande antenna, seminascoste dalle altissime palme, due costruzioni recenti: in una contiene l’alloggio per i trasfertisti e per le apparecchiature, l’altra il gruppo elettrogeno; una superficie di almeno 200 m2 di pannelli solari fa da tettoia ad un magazzino senza pareti.
Un sentiero in sabbia tra le palme, curiosamente delimitato da centinaia di taniche in plastica verdi, tutte uguali e perfettamente allineati, attraversa l’isoletta fino alla sua estremità meridionale, con una bianchissima spiaggia.
In vena di confidenze, ci racconta che qualche anno fa, all’insaputa della società, aveva portato con sé la fidanzata, cosa che aveva trasformato un impegno di lavoro solitario e noioso in una bellissima ed esclusiva vacanza. Avvertiamo che avrebbe piacere di trattenerci, ma è quasi ora di pranzo e noi vorremmo fare un po’ di snorkeling… solo più tardi, una volta rientrati in barca, ci rendiamo conto con rammarico che per ricambiare la sua ospitalità avremmo potuto invitarlo a bordo a mangiare con noi… peccato, la prossima volta saremo più bravi.
Da qualche giorno si susseguono nel cielo intensi addensamenti nuvolosi, spesso scurissimi, che sembrano preannunciare un peggioramento del tempo. E infatti la notte è segnata da due temporali, con pioggia scosciante e raffiche di vento a 25 nodi, uno da est e l’altro da ovest, ma l’ancoraggio si rivela buono e sicuro.

Ancora una volta, però, il piano di navigazione decreta la fine di questa piacevole sosta; la mattina di mercoledì 18 aprile salpiamo, sotto un cielo coperto, alla volta del piccolo atollo di Rasdhoo.

mercoledì 18 aprile 2018

Maldive : DHARAVANDHOO - magiche immersioni



Come previsto dal piano di navigazione preparato a casa, giungiamo a Dharavandhoo venerdì 6 aprile: in questo caso il rispetto delle date è importante, perché qui arriveranno in aereo i nostri amici genovesi Umberto e Ornella. Sono anche loro armatori di un Amel Super Maramu, ci siamo conosciuti in occasione della traversata atlantica con l’ARC, nel 2008, e da allora siamo sempre restati in contatto. Da Genova voleranno su Malè, la capitale delle Maldive, e un volo locale li porterà su questo piccolo atollo.
La presenza dell’aeroporto rende il “local harbour” di Dharavandhoo molto trafficato: dai numerosi piccoli aerei che arrivano ogni giorno scendono decine e decine di turisti, diretti in grande maggioranza ai tanti resort sparsi nelle isolette vicine, ed è un continuo viavai di water-taxi e navette, a cui si aggiungono barche locali da trasporto merci che si fermano mezza giornata, fanno le consegne e ripartono.
Come abbiamo già detto, è difficile trovare posto all’interno del porticciolo; l’unica sistemazione per una barca a vela è con la prua legata al frangiflutti di NW e l’ancora a poppa, più o meno al centro del bacino. Per un paio di giorni, aspettando l’arrivo dei nostri amici, ci divertiamo ad osservare le abili manovre con cui i comandanti delle piccole navi che entrano ed escono si destreggiano nella ragnatela dei cavi di ormeggio galleggianti.

Nel pomeriggio di domenica 8 aprile, proprio quando ci stiamo preparando per andare a prendere Umberto e Ornella, dal cielo improvvisamente oscurato da nuvoloni neri si scatena una pioggia torrenziale. 15 giorni senza una goccia d’acqua ed ora in 15 minuti si ristabilisce la media delle precipitazioni mensili! Attendiamo qualche minuto sperando in un’improbabile schiarita, poi ci armiamo di mantella antipioggia e k-way e andiamo a terra col dinghy. L’aereo è puntuale, i nostri recuperano velocemente i bagagli, e possiamo tornare in barca, sotto una pioggia fortunatamente un po’ più leggera.
Una volta a bordo è come essere davanti al camino la notte di Natale: dalle valigie di Umberto ed Ornella cominciano ad uscire, oltre ai loro (pochi) effetti personali, strenne di tutti i tipi. Sigarette, sigari, liquerizie, fazzoletti di carta (qui introvabili), parmigiano, caffè, un inverter, ma soprattutto due grandi vasetti di VERO pesto genovese fatto personalmente da Ornella.
Ma oltre a questi “preziosi” arrivano anche i pezzi di ricambio del dissalatore. La riparazione che avevo effettuato in Sri Lanka era parzialmente riuscita, ma c’era una perdita dal circuito ad alta pressione; interpellato, il nostro tecnico italo-francese Philippe mi aveva consigliato di sostituire le teste delle membrane.
Così lunedì mattina Umberto ed io iniziamo il lavoro: dobbiamo smontare il dissalatore e togliere le teste da sostituire. E qui incontriamo la prima difficoltà: le teste non si muovono di un millimetro, nemmeno con la “cagna” (attrezzo multiuso dagli idraulici).  Alla ricerca di qualcosa di utile, facciamo un giro nei piccoli negozi di hardware del paese, senza trovare niente di più di un bullone (che comunque verrà utile). Rientrati in barca sostanzialmente a mani vuote, non possiamo che aguzzare l’ingegno; insisti e persisti, alla fine troviamo il sistema per togliere le teste utilizzando un paranco, il winch, la chiave dei filtri, una fascetta metallica e la cagna.

Operiamo senza troppe difficoltà la sostituzione, ma quando rimonto il tutto ci attende un’amara sorpresa: la perdita di acqua del circuito è più consistente di prima, e questa volta viene dalle altre due teste, posteriori, che credevo sane! Cambiamo gli o-ring due volte e dopo aver notato che semplicemente si tagliavano nel montaggio, ho deciso di sostituire anche queste due teste con ricambi che per fortuna avevo a bordo. È stata dura, ma ce l’abbiamo fatta.  Con la collaborazione ed il sostegno di Umberto, dopo una giornata di intenso lavoro ed almeno 4 litri di sudore, il dissalatore è in opera e funzionante!
Già nei primi due giorni passati da soli a Dharavandhoo Lilli ed io avevamo individuato un posticino per mangiare a mezzogiorno: sul porto, cucina indiana-maldiviana, dove prendiamo un abbondante piatto unico di riso condito con verdure o pesce. Continuiamo ad andarci anche con Umberto e Ornella: ogni pasto ci costa meno di 15 €, non a testa, in tutto!
Martedì incontriamo gli istruttori di diving Virgilio e Jessica; sono tornati dalla fiera di Singapore ed hanno ripreso le loro attività. Sia io che Umberto non facciamo immersioni da 11 anni e condividiamo una certa apprensione all’idea di riprovare; concordiamo con Virgilio di fare un ripasso ed una verifica delle nozioni base, con alcuni esercizi in acque basse, per vedere come va.
Mercoledì pomeriggio facciamo la prima uscita con la barca attrezzata di Virgilio: durante il trasferimento ci fa ripassare segni convenzionali e controllo dell’attrezzatura, poi una volta in acqua ci mette a nostro agio facendoci eseguire esercizi di base (togliere e rimettere la maschera, togliere il boccaglio ed espellere l’aria dai polmoni, compensare la pressione interna delle orecchie). Questa piccola prova ha esito positivo, entrambi ci sentiamo tranquilli e così scendiamo a 25 metri, per un’immersione di 50 minuti.

In breve tempo ci sentiamo, fisicamente, come se 11 anni non fossero passati; sott’acqua vediamo una quantità di pesci di tutti i colori, come avevo visto -forse- solo in Mar Rosso.



Su consiglio di Virgilio, abbiamo usato bombole caricate a Nitrox (aria arricchita di ossigeno al 30%), che in sintesi dà la possibilità, entro la profondità massima di 36 metri, di restare più tempo in acqua; naturalmente ci sono altri aspetti positivi e negativi, che bisogna conoscere. La cosa ci ha incuriosito a tal punto che abbiamo deciso di fare il corso Nitrox: studio di un libretto, visione di un filmato di 40 minuti, esamino con 25 domande quiz ed una seconda immersione a 24 metri.
Anche questa seconda immersione è stupenda: siamo sopra una parete che scende a 30 metri, scendiamo tra i 18 e i 25 metri per infilarci uno stretto canyon, con anse e piccole grotte; intorno a noi, un tripudio di pesci colorati.



Da molto tempo desideravo riprendere le immersioni; in questi anni per mare le occasioni non sarebbero mancate, ma c’era sempre qualche impedimento, primo fra tutti la ritrosia di Lilli che purtroppo dopo un attacco di claustrofobia all’inizio del corso sub non ha più il coraggio di scendere con le bombole. Fortunatamente quest’anno con Umberto, grazie anche alla grande professionalità e sensibilità di Virgilio che ci ha reso tutto facile, sono riuscito a realizzare questo desiderio e ne sono davvero felice. Un’esperienza da ripetere!
La sera del giovedì invitiamo a cena in barca Virgilio e Jessica: dopo averli deliziati con il pesto dell’Ornella facciamo le ore piccole a raccontarci le nostre avventure, salutandoci alla fine come vecchi amici. Ancora una volta ci dispiace non fermarci qualche giorno in più, ma, come al solito, tanti altri luoghi e incontri ci attendono...
L’indomani di buon mattino il prezioso Mustafà viene a nuoto per liberare le cime di ormeggio (fissate sott’acqua). Recuperiamo l’ancora a poppa e, sotto un cielo grigio, riprendiamo la rotta verso sud, alla volta di Goidhoo.

lunedì 9 aprile 2018

Maldive: KANUHURA - DHIDHDHOO - DHARAVANDHOO

Martedì 3 aprile salpiamo da Feevah alle 6.40; è appena l’alba ma dobbiamo percorrere 53 miglia, e vogliamo arrivare con il sole ancora alto.
Persevero nel mettere la traina, anche se fino ad ora non ci ha dato alcuna soddisfazione; questa volta però, verso le 13, arriva l’inconfondibile sibilo del mulinello, che non sentivo da molto tempo. Mi precipito al recupero e senza troppa fatica tiro su un grosso barracuda, sui 5-6 kg; non è un pesce che amiamo, per fortuna dopo pochi minuti vediamo lì vicino un pescatore solitario su una piccola barca, gli faccio cenno di avvicinarsi e gli offro il barracuda che lui accetta volentieri. Il passaggio della preda avviene direttamente, dalla nostra canna alla sua barca, senza neanche fermarci. Grandi saluti e via! Riprendiamo la navigazione e rimetto la traina, sperando di prendere qualcosa di meglio. Illusione...
Alle 16.10 arriviamo a Kanuhura, dove caliamo l’ancora su 14 metri di fondale sabbioso, con qualche macchia di corallo basso, acque limpide (5°31.811’N 73°29.962’E). La cartografia C-Map si rivela alquanto imprecisa, mentre la Navionics, seppure scarsa di dettagli, è almeno correttamente posizionata.  Kanuhura è una piccola isola facente parte dell’atollo Lhaviyani, occupata interamente da un resort e contornata da un esteso reef, interrotto artificialmente in corrispondenza del pontile di attracco cui si accede attraverso un canale segnalato da due luci (rosso a sinistra, verde a destra) e da paletti bianchi. C’è un discreto movimento di idrovolanti e water taxi che caricano e scaricano turisti. La struttura del resort è poco visibile dal nostro ancoraggio (il che è un bene: impatto paesaggistico contenuto), solo di sera si accendono a terra mille luci, quasi vi fosse una cittadina.



Il nostro programma prevede una giornata di sosta, di cui approfitto per completare la pulizia della carena e poi dedicarmi al nostro malato di bordo: l’autopilota.  Smonto l’attuatore, controllo il motore e le spazzole, pulisco il collettore; verifico che, alimentandolo separatamente, il motore funziona.
A questo punto la diagnosi comincia a delinearsi con maggiore chiarezza: il guasto deve essere nella centralina. Ma è un punto delicato e prima di metterci le mani mi piacerebbe avere un parere di un tecnico. Tramite il nostro amico Umberto di Genova (armatore di Be Quiet2, gemella di Refola, e in procinto di raggiungerci in aereo per una breve vacanza alle Maldive) riesco a contattare un tecnico Raymarine di Lavagna: “C’è una semplice prova da fare: metti il pilota in modalità Auto, dai il comando +10 due volte e verifica se ai morsetti di uscita della centralina c’è tensione”. Effettuiamo la prova e la diagnosi è finalmente confermata: il guasto è sulla centralina. La brutta notizia è che, a parere del tecnico, è molto difficile poterla riparare, non esistono nemmeno i ricambi perché non è più in produzione.
Purtroppo non ho alternative: non mi resta che smontare la centralina dell’autopilota secondario e applicarla a quello principale, che avendo l’attuatore direttamente sul timone risulta più potente e preciso. Rimando però l’operazione alla prossima sosta.
Giovedì 5 aprile riprendiamo la navigazione per Dhidhdhoo, altra piccola isola che si trova 10 miglia a SW, sull’estremità dello stesso atollo Lhaviyani.
Nel breve percorso peschiamo nuovamente: questa volta è un tonno, ma lungo appena 20 cm.! Come lo tiro su in coperta, il piccolo tonnetto si libera dall’amo, ed io, inspiegabilmente, lo blocco nel secchio invece di lasciarlo tornare in acqua. Lilli dice che in questi momenti si capisce perché sono le donne e non gli uomini a mettere al mondo i bambini. In effetti devo dire che, a distanza di giorni, ho ancora il rimorso di averlo ucciso.
Alle 12.30 siamo a destino ed ancoriamo su 9 metri di sabbia, con qualche macchia di corallo morto, (5°22.971’N 73°22.909’E); l’acqua è limpidissima e piena di pesci di grandi e piccoli, di tutti i colori.
Dhidhdhoo (altro nome duro per noi da pronunciare, con tutte quelle inutili h) è un’isola disabitata, con molte palme, contornata da un esteso bassofondale a nord e da un lungo reef a sud, che è poi quello che chiude l’atollo Lhaviyani. È un posto rilassante e solitario, dove si apprezzano i bagni nell’acqua chiara e trasparente. Durante la nostra sosta arrivano due barche a motore con a bordo famiglie di locali; fanno un pic-nic sull’isola e se ne vanno prima del tramonto.  
Il giorno seguente lasciamo l’atollo Lhaviyani per spostarci in quello successivo, Baa. La nostra destinazione è Dharavandhoo, a 23 miglia, dove c’è un altro piccolo Local Harbour. Da Anna e Paolo di Zoomax avevamo saputo che vi si trova anche un centro diving italiano, condotto da Virgilio e Jessica, che avevamo contattato già dall’Italia. L’idea è quella di fare con loro un breve corso di ripasso (“Scuba Review”), visto che sono molti anni che non faccio immersioni degne di questo nome. Così, una volta in vista dell’isola, chiamiamo Virgilio per prendere accordi; lo cogliamo in procinto di partire con la moglie Jessica per Singapore, dove pare ci sia una fiera di subacquea. “Non ti preoccupare - dice Virgilio - avviso i miei uomini che ti diano una mano per l’ormeggio; noi torneremo lunedì sera”.
In effetti, quando arriviamo alle 14.10, ci rendiamo conto che ormeggiare in questo porticciolo sarebbe davvero difficile senza assistenza. Nel piccolo bacino, di forma rettangolare, non c’è spazio per stare alla ruota; inoltre tutta l’area di manovra è ingombra di cime galleggianti e del calumo in tessile delle numerose barche in banchina.
Individuiamo subito il collaboratore di Virgilio, che ci fa cenno di portare la prua sul frangiflutti e mettere l’ancora a poppa; mentre armiamo la nostra Fortless 9 con 10 metri di catena + tessile, Mustafà ci raggiunge a nuoto con maschera e pinne. Ci indica il posto in cui calare l’ancora e in apnea fissa a due anelli cementati alla base del frangiflutti (quindi sott’acqua) le nostre due cime di ormeggio di prua. Altri collaboratori del diving arrivano con una piccola barca a motore per completare la messa a punto dei cavi. Lilli ancora si chiede come avremmo fatto senza di loro … ragazzi giovani e molto gentili, che addirittura parlano un po’ di italiano! 



In assenza di Virgilio e Jessica, parliamo con un altro istruttore italiano del loro centro, Raffaele, al quale diciamo che aspettiamo per domenica 8 aprile l’arrivo dei nostri amici Umberto e Ornella per organizzare il nostro corso di “ripasso”.
Nel frattempo mi dedico nuovamente all’autopilota: confermata la diagnosi di guasto alla centralina, provvedo all’espianto dal pilota n.2 e al trapianto sul principale. Un’operazione di pazienza, in cui devo scollegare e ricollegare decine e decine di fili, ma che alla fine riesce perfettamente: il pilota principale è nuovamente funzionante!