Appena giunti
alle Maldive la prima cosa cui dobbiamo abituarci è l’impronunciabilità dei
nomi di isole e atolli, per noi veri e propri scioglilingua. Forse il nome di
Uligami (piuttosto facile) è stato scelto proprio per non spaventare i nuovi
arrivati. Ma già la prima tappa, di 27 miglia, ci porta a Nolhivaranfaru, il
cui nome rispetta in pieno lo standard toponomastico del luogo.
La seconda
cosa, decisamente più semplice, cui dobbiamo abituarci è un nuovo ritmo di
navigazione, molto più lento: passeremo circa due mesi alle Maldive, spostandoci
quasi esclusivamente con tappe giornaliere, da un atollo all’altro, di isola in
isola.
Una terza
cosa ci ha sorpreso, in questi primi dieci giorni: l’assenza di vento. Finora
abbiamo trovato al massimo una brezza che arriva a 5 nodi, e secondo le
previsioni la situazione rimarrà immutata per altre due settimane. Se da un
lato questo assicura ancoraggi tranquilli ed acque calme, dall’altro garantisce
anche una grande calura ed una grande noia durante i trasferimenti.
Giovedì 29
marzo raggiungiamo infatti Nolhivaranfaru dopo 5 ore di motore su un mare
piatto, senza sorprese … nemmeno dalla pesca! Entriamo nella laguna, racchiusa
tra l’isola ed il reef: l’accesso è una pass a SW, con fondale minimo di 4 metri,
segnalata da un paletto bianco da lasciare a sinistra (WP di ingresso:
6°40.969’N 73°05.920’E). All’interno le profondità sono sui 6-7 metri, i
fondali sabbiosi con teste di corallo, alcune delle quali si elevano fino a
meno di 2 metri dalla superficie dell’acqua. Come sempre, occorre molta
attenzione e assicurarsi una buona visibilità (sole alto e alle spalle).
Troviamo già
ancorate quattro barche a vela (due delle quali sono Amel, un 54 e un
Santorin), ma c’è molto spazio.
Caliamo il ferro su 6 metri di sabbia, liberi
da “patate” (6°41.309’N 73°06.739’E); l’acqua è più torbida rispetto a Uligamu,
con un po' di sabbia in sospensione. Assistiamo ad uno spettacolare tramonto e
passiamo una serata e una notte tranquille, illuminate dalla luna già calante,
ma ancora molto grande.
Il mattino
seguente i nostri vicini partono di buon mattino ed anche noi, non troppo
attratti né dal villaggio di poche case né dall’acqua poco trasparente,
decidiamo di salpare. Ma ce la prendiamo comoda: la nostra prossima
destinazione, Kulhudhuffuschi, è a sole 7 miglia!
Tutti gli
atolli delle Maldive sono dotati di almeno un “local harbour”, porto pubblico
in cui possono entrare anche le barche da diporto; al contrario, nei
porticcioli dei resort è vietato entrare senza autorizzazione, e sembra che
spesso non siano troppo felici di accogliere le barche. L’espressione ‘porto pubblico’
non deve trarre in inganno: si tratta di piccoli bacini, protetti da
frangiflutti, con banchina in cemento, su cui attraccano traghetti o piccole
navi di trasporto merci. Le barche stanno all’ancora, e quindi la capienza è
estremamente limitata. Il porto di Kulhudhuffushi è uno dei tre “porti
commerciali” esistenti alle Maldive (gli altri due sono a Male, la capitale, e
a Hithadhoo, a sud). Il che non significa che sia più grande degli altri, ma
solo che per sostarvi bisogna pagare una piccola tariffa.
Al nostro
arrivo al molo in cemento, sul versante E del porto, è attraccata all’inglese
una grande nave da carico.
In seconda fila, ormeggiata alla fiancata della nave
c’è una grande barca a vela con bandiera Vanuatu (!). Un’altra barca a vela è
all’ancora, più o meno al centro del bacino.
Il versante W è protetto da un
frangiflutti, mentre in fondo al porto, sul lato N, c’è una spiaggia.
Effettivamente non c’è posto per più di 3-4 barche, con un massimo di calumo
sui 25-30 metri. Calcolando il campo di giro per stare alla ruota, ancoriamo su
6 metri di sabbia (6°36.971’N 73°03.969’E). Dopo di noi arriva il catamarano Tala
2, con la coppia di canadesi conosciuti ad Uligamu, e si mette alla ruota pure
lui. Lilli voleva preparare un cartello con scritto “COMPLETO” e metterlo
all’ingresso del porto, ma l’ho fermata…
Nel
pomeriggio alcune famiglie di locali raggiungono la spiaggia e fanno
tranquillamente il bagno a pochi metri da noi. Aliamo il dinghy per fare un
giro a terra: troviamo una cittadina animata, con molti negozi e alcuni piccoli
supermercati; le tre strade principali sono asfaltate e dotate di
illuminazione, mentre tutte le altre sono in sabbia; pochissime le automobili,
quasi tutti taxi, peraltro senza clienti, mentre vediamo molti giovani, ragazzi
e ragazze, girare a bordo di motorini. Aiutati da Google-Maps (si può vivere
senza?) troviamo facilmente uno sportello ATM, dove preleviamo valuta locale.
Vorremmo comprare una bandiera maldiviana, di cortesia, perché quella
consegnataci dall’agente è grande poco più di un francobollo, ma i negozianti sembrano
sorpresi della nostra richiesta: forse qui non sono molto nazionalisti, di
bandiere non ne vende nessuno. Rientrando in porto ci rivolgiamo agli agenti
della sicurezza, che ci regalano una bella bandiera da 40x30 cm, che ora
sventola fieramente sulla nostra crocetta di dritta.
Il giorno
seguente, sabato 31 marzo, è giorno di mercato: dalle isole vicine i contadini
portano i loro prodotti, frutta e verdura. Ci alziamo di buon mattino e andiamo
a fare acquisti. Il “mercato” è allestito in una piccola piazzetta di fronte
all’ATM (dove vediamo una lunga fila di locali in attesa di prelevare). Non ci
sono banchi, ma cassette e stuoie distese a terra dove una trentina di persone espongono
piccole quantità di ortaggi e frutta. Compriamo melanzane, peperoni, papaie e
manghi; i prezzi sono in linea con quelli che troviamo nei nostri supermercati.
Al nostro rientro un addetto del porto, quasi timidamente, ci invita a passare
in ufficio con i documenti della barca, permesso di navigazione e crew list,
per registrare la presenza e pagare la tassa portuale (circa 19 € per due
notti).
La grande
barca a vela con bandiera Vanuatu, che era affiancata alla nave, lascia il
porto, salutata dall’intero equipaggio e da festosi segnali sonori. Anche
l’altra barca già presente al nostro arrivo salpa e se ne va. Così nel “porto”
rimangono solo la nave, il catamarano e noi: il cartello COMPLETO potrebbe
essere rimosso.
Domenica 1° aprile è Pasqua, ma qui è un giorno
come un altro, ovviamente, perché il 100% della popolazione è musulmana. Come
sempre Lilli si alza presto per preparare la colazione; ancor prima delle 7 si
accorge che dalla nave stanno urlando ai canadesi del catamarano di accendere
il VHF sul canale 16. Fa lo stesso anche lei ed apprende che “in few minutes”,
vale a dire tra pochi minuti, la nave dovrà manovrare per uscire dal porto,
quindi noi siamo cortesemente pregati di salpare e toglierci di mezzo. Potremo
rientrare solo quando la nave sarà fuori. La richiesta è fatta con estrema
cortesia ma Lilli ha la sensazione che i canadesi non la prendano bene. Finita
la loro comunicazione, Lilli chiama per chiedere alla nave conferma, e
assicurare che anche noi ci sposteremo “in few minutes”. Mi tiro su dalla
branda, veramente preferirei fare colazione prima di salpare, ma non si può!
Salpiamo l’ancora velocemente e insieme al catamarano Tala andiamo fuori.
Dal largo osserviamo che effettivamente la nave
aveva bisogno di tutto il bacino per eseguire la manovra; una volta fuori, il
comandante ci chiama al VHF per ringraziarci nuovamente della collaborazione e
per augurarci buona giornata. Solo a noi, perché i canadesi se ne sono andati…
Rientriamo in porto, ora che lo spazio è tutto per
noi, per fare i “giri bussola”, un’altra terapia per il nostro autopilota in
coma: consiste nel fare con la barca, ad una velocità inferiore a 2 nodi, tre
giri in cerchio. La circonferenza deve essere abbastanza ampia da essere
percorsa in un tempo non inferiore a 3 minuti per giro. In questo modo si può
correggere la differenza tra i gradi della bussola elettronica e la bussola
magnetica della barca.
L’operazione si conclude con successo, ma il malato
rimane in coma; sconsolati ma non arresi, mettiamo la prua su Feevah, a 18
miglia.
Arriviamo alle 12.30, naturalmente a motore; ancoriamo
circa 300 metri a sud del porticciolo, su un fondale di 26 metri di sabbia dura,
con alcune macchie di crosta corallina (6°20.681’N 73°12.313’E).
Qui l’acqua è
limpida e si può seguire facilmente la catena, anche a questa profondità; viste
le buone condizioni di visibilità, nel pomeriggio mi dedico alla pulizia della
carena, che comincia ad avere una patina su cui attecchiscono facilmente denti
di cane e patacche di calcare.
Verso sera due locali si avventurano a nuoto dalla
spiaggia fino alla barca, per darci il benvenuto e indicarci la strada che
dalla spiaggia arriva velocemente al paese; ci dicono che la loro è un’isola
“agricola” e che se abbiamo bisogno di frutta e vegetali possiamo trovare ciò
che ci serve.
L’indomani scendiamo a terra con il dinghy; andiamo
prima a dare un’occhiata al porticciolo, molto protetto e curato, in cui trovano
posto una decina di barche da pesca locali. Qui arriva ovviamente anche il
traghetto di linea, e c’è una bella “sala d’attesa”, coperta, dotata di aria
condizionata e televisore maxi-schermo. Mentre ci guadiamo intorno veniamo
avvicinati da Manik, un giovane che si offre di farci da guida a bordo della
sua motoretta elettrica a 3 ruote; in un primo tempo esitiamo, dalle immagini
satellitari non ci pare che isola e villaggio siano tanto grandi da richiedere
una guida, ma lui insiste e quando gli diciamo che intendevamo lasciare il
dinghy non al porto ma sulla spiaggia risponde prontamente “Nessun problema, vi
raggiungo lì!”.
Sulla spiaggia troviamo infatti Manik ad
aspettarci. A pochi metri dal bagnasciuga c’è un capannone in lamiera piuttosto
precario, che andiamo a vedere. Si tratta di un rudimentale cantiere: armata di
pochi attrezzi, viti e chiodi ma di eccezionale maestria, una piccola squadra
di locali sta costruendo una grande barca in legno.
Manik ci invita a salire sulla sua motoretta (Lilli
accanto a lui sul sedile di guida, io a cassetta nel “bagagliaio”) e ci porta
in giro per il paese.
Fin da subito rivolgiamo un pensiero di ringraziamento
ad Anna e Paolo di Zoomax, che sono
stati qui due anni fa, non solo perché ci hanno cortesemente inviato le tracce
del loro percorso (che stiamo seguendo passo passo), ma anche perché ci hanno
segnalato quest’isola come “da non perdere”. Concordiamo in pieno: Feevah ha davvero
qualcosa di magico.
Il villaggio ha piccole strade in sabbia, curate e
pulite, su cui si affacciano piccole case tutte dotate di giardini con alberi
da frutto e adornate con fiori coloratissimi. Le abitazioni più vecchie erano
costruite con sassi di corallo di piccolo taglio, cementati, e sono molto belle
da vedere, ricordano un po’ i muri a secco che si vedono ancora ogni tanto,
dalle nostre parti. Le costruzioni più recenti sono invece in mattone, ma tutte
pitturate in meravigliosi colori pastello. Non ci sono automobili, vediamo
alcune donne anche anziane a bordo di biciclette, qualche motorino e un paio di
tricicli elettrici, come quello del nostro Manik. Non mancano ovviamente la
scuola, la sede del Consiglio locale, due moschee (una nuova e quella vecchia
in corso di ristrutturazione), la stazione di polizia (tutta dipinta di
azzurro). Ovunque è un tripudio di fiori e di colori.
Manik ci racconta di sé: ha lavorato per alcuni
anni presso un resort, dove ha imparato qualche parola di italiano, ora come
molti altri in paese si dedica alla coltivazione di piante e fiori, destinati ai
resort vicini. Ha 37 anni e 3 figli (la più grande diciottenne), ci mostra la
sua casa e il suo vivaio, ci presenta la sua famiglia.
Ci conferma la vocazione agricola dell’isola;
questa gente ha trovato un buon compromesso: mentre la loro isola resta
incontaminata e bellissima, vendono piante ornamentali, alberi da frutto,
frutta e verdura ai comandanti delle barche da trasporto che a loro volta le
rivendono ai resort. La richiesta è grande e all’apparenza tutti sono
soddisfatti.
La nostra guida ci porta a visitare le “piantagioni”,
alcune delle quali protette da reti; vediamo colture di zucche, cetrioli,
peperoncini, banane, papaie. Molti appezzamenti sono di proprietà della scuola,
che li concede in affitto ai locali.
Decidiamo di pranzare in una locanda: “fried rice” (gustoso riso
condito coperto da un uovo all’occhio di bue), poi ci vengono offerti dolci e cocco;
dopo l’assaggio, acquistiamo dei manghi di una qualità arancione, molto
apprezzati, che i resort pagano 13 US$/kg. Veramente buoni e dolcissimi, ma anche
cari.
Chiediamo a Manik se è possibile acquistare 40
litri di gasolio; non c’è una vera e propria stazione di servizio (per quali
clienti?) ma con un paio di telefonate ci trova il gasolio (a 0,83 US$/litro),
che ci consegnerà alle 16 al porto, in taniche.
In conclusione, Feevah è proprio un angolo di
paradiso, e tale speriamo che resti a lungo.