9°30.086'S che 160°36.240'E
Il 1° giugno, di buon mattino, lasciamo la bella Santa Ana. Il cielo è ancora coperto e, proprio al momento di salpare, un diluvio che riduce la visibilità a qualche decina di metri ci costringe a sospendere la manovra per alcuni minuti.
Tutta la giornata è un continuo alternarsi di groppi con pioggia intensa e raffiche di vento a 25-30 nodi, per fortuna al gran lasco. Per ripararci dalla pioggia che arriva da poppa, montiamo la chiusura verticale del tendalino che mette al riparo metà pozzetto, mentre il vento teso e le onde ci fanno correre ad una media di 8 nodi; alle 14.50 siamo già a Uki Ni Masi Island, con 58 miglia alle spalle.
Entriamo con cautela nella ampia Salwyn Bay: non abbiamo la foto satellitare, la cartografia è scarsa di dettagli e la nostra posizione su Navionics risulta addirittura sul reef! Il cielo grigio di nuvole non ci aiuta a distinguere i colori dei fondali; la baia, aperta ad ovest, è ben protetta da nord a sud e il fondale risale dolcemente con acque calme e limpide. Ancoriamo su un fondo di sabbia con qualche corallo isolato sui 9-10 metri (10°17.066'S 161°43.564'E).
A terra si nota una sorta di segheria, dove vengono tagliati grossi tronchi, che vengono accatastati in prossimità della spiaggia; le case del villaggio si intravedono appena, più in alto sulla collina.
Purtroppo anche qui il segnale telefonico è debole, non si riesce nemmeno a scaricare la posta, non funziona Whats App, né tanto meno internet.
Con il tempo così poco invitante, rinunciamo a scendere a terra e decidiamo di ripartire l'indomani.
La prossima meta, l'isola di Malaita, ci aveva creato qualche perplessità: avevamo letto che l'isola, o meglio i suoi combattivi abitanti, erano stati al centro dei conflitti che hanno tormentato e insanguinato la storia recente delle Solomon. Dal 2003, e tuttora nelle maggiori isole, è presente il presidio militare australiano (e di altre nazioni del sud Pacifico) che era intervenuto per sedare i disordini ed evitare una vera e propria guerra civile. Quando abbiamo chiesto a S. Cruz notizie su Malaita, ci hanno risposto: ”Lì la gente è cattiva”. Non a caso anche la nostra “Lady Custom”, poi ribatezzata “Lady Alcool”, è originaria di Malaita; tuttavia gli amici svizzeri di A-Gogo, quando sono stati a Malaita nel 2013, hanno descritto questi posti in termini entusiastici.
Alla fine il meteo decide per noi: la rotta di 330° che porta a Malaita ci consente di andare a vela con il vento dal traverso al lasco, e di navigare molto veloci con tutte le vele a riva.
Il way-point di ancoraggio, segnalatoci da A-Gogo, è Port Bougard, che si trova nello stretto canale che separa Malaita da Small Malaita, a SE, e detto per inciso di “Port” ha solo il nome. Ancora una volta, proprio quando ci apprestiamo ad entrare nel canale, una pioggia torrenziale, sotto un cielo nero, ci sbarra la strada.
Aspettiamo che passi il grosso del diluvio, poi sotto una pioggia sottile e pungente percorriamo le ultime 3 miglia, fino a quando il canale si allarga formando una sorta di lago.
Ancoriamo su un fondale fangoso di 7-8 metri, in acque calme ma torbide (10°17.066'S 161°43.564'E).
Dopo l'ancoraggio alcune canoe, con a bordo ragazzini, si avvicinano per curiosare; c'è un certo via vai di piccole barche a motore che percorre il canale nei due sensi; da terra si sente provenire, in corrispondenza di una chiesa, il tipico vociare dei ragazzi a scuola.
Una delle barche, con alcuni giovanotti a bordo, ci sfreccia più vicino, salutando con qualche urlaccio; Luciano commenta: ”Che brutti ceffi!”.
La notte passa sotto una pioggia incessante e l'indomani alle 8.00 salpiamo nuovamente. Appena fuori dal canale veniamo raggiunti da una barca a motore, che ci fa segno di fermarci: sono gli stessi “brutti ceffi” della sera precedente. Disinserisco la marcia ed appena sotto bordo il primo di loro si attacca al tienti bene, mentre un altro ci dice che abbiamo sostato nella loro baia e dobbiamo pagare una tassa di 1000 $.
A questo punto assumo un atteggiamento risoluto, e dico a Francesco ad alta voce:”Chiama la Polizia”. I ragazzotti insistono nella loro richiesta, senza mollare la presa sulla barca, allora cerco di staccare le mani del primo giovane, urlando: ”Via, via!”, poi reinserisco la marcia e do motore a 2000 giri. L'aumento di velocità sorprende il loro timoniere, il primo si sbilancia e si stacca dalla presa, e poi desistono dall'inseguimento.
Come commentare questo fatto? Sicuramente giovani sbandati che ci hanno provato: non erano armati e nemmeno troppo aggressivi, certo che se l'abbordaggio fosse avvenuto mentre eravamo all'ancora, difficilmente ce li saremmo tolti di torno, se non lasciando loro qualcosa... forse la pioggia che è continuata fitta fino al momento di salpare ci ha salvato!
Facciamo rotta su Waisisi Harbour a 27 miglia: vento debole/assente, percorriamo tutto il percorso a motore.
Questo tratto di costa è caratterizzato da ampie lagune protette da isolette lunghe e strette con alcuni passaggi per andare all'interno; anche Waisisi Harbour ha le stesse caratteristiche, ma in fase di avvicinamento ci risulta impossibile distinguere l'accesso. Per alcuni minuti temiamo che la cartografia, già scarsa di dettagli, sia addirittura sbagliata, quando finalmente, a meno di un miglio di distanza, il passaggio ci appare quasi d'incanto.
Si entra in una ampia laguna, con acque profonde e sicure e un villaggio di fronte all'ingresso; alle 13.10 caliamo l'ancora nella parte più interna ad est della laguna, su un fondale fangoso di 12-13 metri ed acque torbide (9°19.213'S 161°05.319'E).
Dopo l'ancoraggio veniamo circondati da numerose canoe con a bordo ragazzini tra gli 8 e i 14 anni, inizialmente un po' timidi, ma incuriositi, non parlano inglese ma lo capiscono; distribuiamo loro un po' di cioccolatini e forse per questo ci stanno intorno tutta la giornata.
Molti adulti, intenti a pescare, girano più al largo; solo un certo Steven viene sottobordo: sulla sessantina, parla un buon inglese. Vista l'esperienza del mattino a Port Bougard, gli chiediamo se possiamo fermarci e passare una notte all'ancora. Risponde di sì, ci dà il benvenuto e ci racconta la sua storia: ha lavorato 22 anni in un cantiere ad Honiara ma poi, in seguito ai disordini e conflitti tra Guadacanal e Malaita, il cantiere è stato chiuso e lui ha fatto ritorno qui, al suo villaggio di origine.
Nel pomeriggio la pioggia ci dà un po' di tregua e ci soffermiamo a guardare i ragazzi giocare a pallone sulla spiaggia, alcuni arrampicarsi come scimmie sulle alte palme per staccare i cocchi, altri giocare con un piccolo coccodrillo morto, lungo poco meno di un metro.
Uno dei ragazzi ci offre due papaie e in cambio gli diamo una busta del nostro tonno surgelato: fiero dello scambio, lo mostrato agli amici ed ai pescatori, mentre i bambini che erano saliti sulle palme ci portano in dono alcuni cocchi già puliti.
Al tramonto tutti ritornano con le canoe alle loro capanne, un raggio di sole entra nella baia ed illumina le alte palme davanti a noi, un buon auspicio per la tappa di domani.
Così è infatti: sabato 4 giugno alle 8.00, quando salpiamo, il sole è già alto e caldo.
È l'ultima tappa prima di Honiara, la nostra meta è Rua Sura Island, a 35 miglia. Il vento è assente, procediamo a motore su un mare piatto e alle 13.00 entriamo nella baia a NW dell'isola, aggirando ad ovest il piccolo isolotto Papari; nonostante sulla cartografia C-Map e Navionics sia indicato un fondale di 6 metri, le acque sono ovunque profonde fin sotto il reef semiaffiorante. Gettiamo l'ancora sul fondale sabbioso di circa 20 metri, giusto per poter ruotare sicuri con 70 metri di catena (9°30.086'S 160°36.240'E).
Ci sono alcune canoe con gente del posto intenta a pescare, al nostro arrivo si avvicinano per salutare e poi ritornano alla loro attività.
Nel pomeriggio un altro di loro si avvicina , si chiama Simon, ha 30 anni e vive qui .
Gli chiediamo quante persone ci sono nell'isola: “10 , ma alcuni domani tornano sulla costa di Guadacanal”. “Quanti siete nella tua famiglia?” “Siamo in 3, io e 2 donne”. Il suo inglese è incerto ma si fa capire. “Hai due mogli?” “Noooo, una moglie!”. ”L'altra è tua cognata?” “Sì”, dice lui.
Dopo questo scherzoso scambio di battute, gli chiedo se ci sono aragoste, lui risponde di sì e che torna più tardi a portarcele.
Quando ormai è buio, arriva Simon, con dei bei pesciotti sui 3-4 etti, ma niente aragoste, forse non ha capito... “Di pesce ne abbiamo molto, noi volevamo le lobster!” gli dico e gli faccio un disegno dell'aragosta. “Yes, ok, domani mattina alle 6”.
Per ringraziarlo dell'impegno, gli offro una birra fresca, che si beve tutta di un fiato. “È stato tutto il giorno sotto il sole a pescare” penso tra me e me, ma subito dopo me ne chiede un'altra, da bere quando andrà a prendere le aragoste.
Vista la precedente esperienza di Vanikolo, mi verrebbe da dirgli “Dopo la consegna!”, ma non me la sento di negargli la seconda birra, così ci salutiamo, mentre matura in me la convinzione che anche questa volta di aragoste non vedremo neanche l'ombra.
L'indomani, alle 6.00, quando Lilli apre il tambuccio, Simon è già a pochi metri che aspetta. Ha una bella aragosta di un paio di chili, e vuole in cambio la bottiglia di alcool che gli ho mostrato la sera prima. Una breve contrattazione, e ci accordiamo per una bottiglia di vino ed un'altra birra.
Così, poco dopo le 7.00, lasciamo l'ancoraggio con destinazione Honiara, a 40 miglia.
Finalmente avremo la connessione internet!!!!